Due esseri umani impolverati, di una polvere impalpabile, come un pulviscolo evanescente nel cono di luce che si infila da un’imposta aperta. È questa immagine, evocativa di un dialogo stratificato dalla polvere e, al tempo stesso polverizzato, che mi ha suggerito il titolo, rivela Saverio La Ruina, regista e interprete insieme a Cecilia Foti, di Polvere. Dialogo tra uomo e donna. Compagni sulla scena e nella vita, li incontro informalmente in uno spazio-tempo di ascolto per rintracciare la vicenda di quei personaggi che vanno in scena nella stanza della mediazione e prima ancora nel corso di molte esistenze opache e lacerate.
Personaggi, con indosso la maschera del dolce principe azzurro e della solare e scanzonata principessa, del tenace capo famiglia e della docile moglie, del bruto cacciatore e della cedevole preda, dello sfuggente “narcisista” e dell’ossessiva inseguitrice, del carnefice e della vittima. Gli esempi potrebbero continuare e le caratteristiche dei personaggi prescindere dalle connotazioni di genere. In tutti i casi la storia si snoda con un andamento duale e conflittuale in cui l’incomunicabilità la fa da padrona, tanto che anche parlare di dialogo appare davvero un “refuso” – In effetti, non c’è dialogo il testo è un continuo di frasi senza senso. Snervanti, osserva Cecilia, che provocano disagio e insofferenza, pensa che in alcuni teatri, soprattutto da Roma in su, dal pubblico si è levato qualche incitamento verso Lei a reagire, a farla finita.
A riprendere potere. Sì perché in una relazione conflittuale si fronteggiano malamente due posizioni di potere e tutto è un pretesto per stabilire chi comanda e chi obbedisce, chi fa le domande e chi dà le risposte, chi può scegliere quale quadro appendere alla parete e chi accettare di staccarlo, anche se in fondo non era brutto e lo aveva regalato una cara amica, chi decide se va bene e come accorciare le sopracciglia, quale abito indossare, se prendere il tè al bar o in casa, rigorosamente seduti l’uno di fronte all’altra. A parlare del nulla.
In effetti l’escalation del conflitto esonda così, tra le banalità e i luoghi comuni, le ripicche e le rivendicazioni reciproche, fino alla fatidica frase che annienta, dopo aver mutilato l’anima, Tanto a te non ti prende nessuno, dove lo trovi un altro come me. Un’ennesima violenza morale e psicologica che accompagna, purtroppo spesso, agiti fisici, come quelli che accadranno, di lì a poco, sulla scena di Polvere.
Sulla sedia la mediatrice, che ascolta i configgenti ripetere la lunga e ritrita teoria di dati, fatti, sgarbi e molestie, avverte i sentiti, non detti, di disagio, fatica, dolore, paura, angoscia; li riceve in tutto il loro peso urticante e spaventoso. Esattamente come gli spettatori inermi e spiazzati, mentre provano a trovare una posizione più comoda sulla poltrona del teatro e a consolarsi con una parola sussurrata alla vicina. Un brusio di malessere e insofferenza che la mediatrice trasforma, prima di tutto dentro di sé, in empatia, in contatto emotivo con quella parte, per molti inesplorata e analfabetizzata, che chiede urgentemente ascolto.
Ascolto e riconoscimento dell’ umanità di ciascuno al di là dei personaggi, delle maschere e dei ruoli. Niente è più umano delle emozioni, dei sentimenti, dei moti dell’animo. Se solo ci avessero insegnato a chiamare per nome questo mondo interiore, che è il portato della storia di ognuno e, per questo motivo, originale e unico. Veicolo verso le istanze profonde di libertà, autorealizzazione, condivisione, rispetto. Sono questi i piani alti su cui ci si ritrova comunemente umani. È questo il livello su cui può
– Mi sono chiesto, confessa Saverio, cosa abbia potuto condurre Lui, un uomo apparentemente dolce e inoffensivo, a diventare un mostro manipolatore e Lei, solare e aperta, a soccombere e annichilirsi. Ma come fai a innamorarti di una bella così e poi la distruggi.
– Nessuno dei due era in sé – gli fa eco serafica Cecilia.
– In effetti il climax della storia si registra proprio quando i due personaggi si perdono, nel senso che smarriscono se stessi, ammesso che si fossero mai trovati. È così che arrivano in mediazione, in crisi, sperduti.
– Intendi che, se uno fosse “quadrato”, le coppie non scoppierebbero, mi chiede Saverio tenendo la sigaretta spenta in mano e con sguardo incuriosito, come per avere conferma di un’intuizione.
avvenire un incontro e una riparazione.
Lo riprendo scherzosamente, ricordandogli che qui le domande le faccio io, e proviamo a ipotizzare come potrebbe andare a finire, o avere un nuovo inizio, una vicenda in cui Lui e Lei, quantomeno uno dei due abbia fatto i conti con se stesso, si sia sintonizzato con ciò che sente e abbia ripulito la memoria dalle incrostazioni e dalla polvere delle perdite, degli abbandoni, del misconoscimento, della trascuratezza, del rifiuto.
Cosa sarebbe potuto succedere, se Lui avesse messo sul tavolo della scena i suoi sentiti di paura o malinconia, anziché gli stereotipi, acquisiti dalla famiglia d’origine, del maschio che va accudito dalla moglie sottomessa. Se Lei, anziché recitare la parte della figlia protetta, da un padre che non c’è più, e mettere in atto il cliché della donna in pericolo (in Polvere la scelta drammaturgica forte è quella della memoria dello stupro subito), avesse contattato i suoi sentiti di rabbia e noia.
Entrambi avrebbero potuto mostrare fragilità e risorse senza vergogna e senza il timore di perdere. Entrambi sarebbero potuti risalire a istanze di consolazione, serenità, leggerezza. Ancora più in alto (o in profondità, dipende dai punti di vista) a valori umani di condivisione e libertà. Avrebbero potuto fare una migliore conoscenza di sé e avviare una trasformazione dei personaggi, emanciparsi da vissuti di frustrazione e annullamento, dirsi, raccontarsi autenticamente, riscrivere le loro storie personali e, forse, quella della coppia. Non ci sarebbe stata più nessuna vittima e nessun carnefice, perché l’uno non può recitare la sua parte senza l’altro.
È quello che avviene nella stanza della mediazione, con la facilitazione di un terzo equivicino, che sollecita la reciproca empatia dei confliggenti, l’empowerment personale e della relazione, sul presupposto che il conflitto altro non è che un’occasione, un’opportunità, per fare un percorso di conoscenza di se stessi, nell’incontro con l’altro di sé e da sé. Ma non è questa la sede per spiegare come ciò possa avvenire sulla scena della mediazione. Usando una metafora, il mediatore potrebbe essere un panno o una spazzola, che uno spettatore porge ai protagonisti della storia per darsi una bella spolverata. Lui e Lei, invece, rimangono soli, isolati, perché al timido tentativo di Lei di “farsi aiutare” è Lui a decidere di “No, bastiamo io e te”.
Non si parla d’amore in questa pièce – Perché non c’è amore, si affretta a dire Cecilia, l’amore è una costruzione, si coltiva con pazienza e costanza senza possesso, ma con dedizione, con il desiderio di esserci. È un percorso di conoscenza. Per esempio, io, nella relazione con Saverio, ho conosciuto meglio me stessa e fatto spazio a parti fino a quel momento ingabbiate. Amore è anche la consapevolezza che ci può essere qualcosa che non si condivide fino in fondo. Si sofferma. Mi arriva una tenue nota di mestizia, che Saverio raccoglie restituendole il sorriso e un velo di rossore – Amore è quando la guardo negli occhi e mi sento felice. È lasciarla libera di darsi ai suoi affetti, mentre io mi rifugio a Castrovillari a lavorare sui miei testi, perché è bella così. E arrossisce anche lui.
Francesca Panarello Mediatrice dei Conflitti
Trailer video: https://www.youtube.com/watch?v=A4b6xKYbeos
Comments