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  • Immagine del redattoreFrancesca Panarello

Domande aperte a proposito del DDL Pillon e la mediazione familiare.



Le risposte rendono saggi, ma le domande rendono umani, per dirla come Yves Montand a Barbra Streisand in L’amica delle 5 e mezza, pellicola del 1970 diretto da Vincente Minnelli, dal più illuminante titolo in lingua originale, On a clear day you can see forever.


E, in effetti, il dibattito scatenato dal DDL Pillon sollecita non poche domande e richiederebbe una gigantesca opera di pulizia e chiarificazione, che forse soltanto una scopa zen, in un adesso illuminato, potrebbe fare.


Ad ogni buon conto, non potendo neanche ricorrere all’ipnosi, come lo psichiatra del film, dott. Chabot, e dichiarandomi umana fino al midollo, senza pretendere di diventare saggia, provo a pormi qualche domanda.


I dati delle rilevazioni ISTAT del 14 novembre 2016, relativi a matrimoni, separazioni e divorzi nel 2015, indicano che su un totale di 91.706 separazioni, 16.323 sono state giudiziali, 57.715 consensuali; analogamente su un totale di 82.469 divorzi, 20.019 giudiziali e 35.416 consensuali.


Inoltre, sempre nel 2015, le separazioni con figli in affido condiviso sono state circa l’89%.

Dal che sembrerebbe che vi sia una diffusa sensibilità verso forme di degiurisdizionalizzazione della vicenda separativa e verso soluzioni consensuali e concordate della crisi di coppia.

Se così fosse, c’è da chiedersi: come mai il livello di conflittualità tra genitori separati continua ad essere alto, se non allarmante? Perché i quotidiani e i social pullulano di notizie sconcertanti riguardo a figli contesi, padri impoveriti ed esclusi dalla vita dei figli, donne bersaglio di accuse di manipolazioni e, a loro volta, vittime di atti di abuso, quando non di violenza? Perché gli avvocati assolvono al compito, non propriamente tipico del loro mandato, di centralinisti, di postini o intermediari, quando gli accordi non vengono rispettati e i figli non sono consegnati (sic!) all’ora prestabilita, o le bollette non vengono recapitate a chi sarebbe tenuto a pagarle o qualunque altro aspetto della “consensuale” non viene rispettato?


In definitiva, se il livello di conflittualità è così alto, siamo così sicuri che le separazioni e i divorzi cosiddetti consensuali, siano davvero tali? Siano cioè, quantomeno, il frutto di una scelta consapevole e di reciproco riconoscimento e rispetto?

Quante di quelle separazioni e di quei divorzi consensuali sono stati accompagnati e facilitati da un mediatore professionale, che abbia in precedenza seguito una formazione specifica e certificata?

Quanti genitori, in fase di separazione o divorzio, sono stati incoraggiati a entrare nella stanza della mediazione, per occuparsi di quel momento delicatissimo della loro vita e per rigenerare il legame di coppia genitoriale?


Quanti sanno che la mediazione non serve a riconciliare, né a favorire o proteggere una visione sessista (di qualsiasi genere si tratti) delle relazioni di coppia, bensì a restituire empowerment a ciascuno dei confliggenti, per permettere loro di prendere le decisioni (sui turni di responsabilità, la coabitazione, gli aspetti economico – patrimoniali etc…) più adatte alle proprie esigenze concrete e a quelle dei propri figli?


Quanti sanno che in mediazione non si discute di diritti o pretese, perché il mediatore familiare è un terzo imparziale (equidistante/equivicino), competente a facilitare la comunicazione interrotta, a dare voce alle emozioni e ai bisogni delle persone coinvolte, a favorire l’adozione di un accordo sostenibile nel tempo e mutualmente soddisfacente, per transitare il legame genitoriale oltre le barriere del conflitto?


Quanti sono coscienti del fatto che la mediazione, al pari di altri strumenti di gestione (concordata/collaborativa) del conflitto è ormai una risorsa sociale imprescindibile, per prevenire e riparare gli strappi e le lacerazioni, che a più livelli, si manifestano in atti di violenza e in relazioni ad alta conflittualità, soprattutto negli ambiti relazionali più sensibili, quale quello, tra gli altri, delle relazioni di coppia?


Forse neanche il senatore Pillon è del tutto consapevole della portata dirompente e sorprendente, che potrebbe avere la scelta di incentivare la mediazione, rispetto alla stessa idea di famiglia e all’immaginario collettivo delle relazioni d’amore.

Alla base della mediazione familiare, infatti, vi è la concezione di “famiglia” come nucleo di relazioni affettive significative, fondate sul consenso e sulla distribuzione paritaria dei ruoli all’interno della coppia, al di là di qualsivoglia discriminazione di genere.


È forse questo processo evolutivo che si intende controllare, mediante il sostanziale contenimento dell’impatto innovativo dello stesso DDL Pillon, che insieme alla regolamentazione della figura del mediatore familiare e alla espressa introduzione della mediazione familiare, come strumento privilegiato di sostegno alla genitorialità co-responsabile, di fatto rischia di disincentivarne gli effetti, proprio perché prevede l’obbligatorietà della mediazione?


Non v’è dubbio che troppe sono le coppie che litigano in tribunale, senza aver mai varcato la soglia della stanza della mediazione e, dunque, accedere quantomeno a un colloquio informativo, sarebbe più che auspicabile, alla luce del tasso increscioso di conflittualità, che le separazioni presentano e di cui tutti siamo a conoscenza più o meno diretta: con la conseguenza che a pagarne i costi emotivi – quando non psichici ed economici - più elevati, sono i figli contesi.


Al contempo però, la mediazione familiare è per suo “statuto” un percorso volontario, perché nessuno può essere costretto a confrontarsi sugli aspetti relazionali del proprio conflitto e l’obbligatorietà mal si concilia con uno strumento, che è finalizzato a restituire alle persone coinvolte il potere di decidere consensualmente la ri-organizzazione della propria relazione di coppia genitoriale.

Su questi punti non vi è al momento sufficiente chiarezza e, tuttavia, regolamentare per legge la mediazione familiare, già presente negli Stati Uniti dal 1972 e in Italia dalla fine degli anni ’80, non dovrebbe apparire ormai un passaggio doveroso, per il benessere delle generazioni più giovani e sociale, in generale?


Perché, allora condire il dibattito di strumentalizzazioni ideologiche, attacchi alle streghe e integralismi religiosi?


Perché accentuare previsioni “punitive”, quali quelle a carico di chi, quale autore (autrice?) dei sintomi della c.d. sindrome di alienazione genitoriale - peraltro di controverso riconoscimento, oltre che di delicatissima e complicata diagnosi -, rischierebbe addirittura di vedersi privato (privata?) della casa familiare?


Per non dire della confusione (anche questa creata artatamente?!) tra mediatori avvocati (di diritto?), mediatori familiari e coordinatori genitoriali: tutte figure previste all’interno del DDL Pillon e, al momento, ancora sovrapposte e mal delineate nelle qualifiche, nei compiti e, soprattutto, sotto il profilo dei costi, che le coppie in fase di separazione e/o divorzio, si troverebbero a sopportare.

Non si rischia così di innescare un’ulteriore querelle tra professionisti e addetti ai lavori, che finisce col condizionare l’opinione pubblica e scoraggiare il ricorso al mediatore familiare professionale? Oppure, peggio ancora, a disincentivare il divorzio, come da alcuni paventato?


È forse questo l’esito a cui si vuole, in realtà, giungere?


Perché, allora, tanta preoccupazione da parte dei detrattori del DDL Pillon, preoccupati dello spettro della mediazione familiare, che, in fin dei conti, finirebbe con il risultare assai depotenziata?

È curioso, peraltro, che su questo fronte si trovino esponenti e movimenti generalmente favorevoli nei confronti di politiche di progresso sociale e di prossimità, come se non abbiano (o non volessero avere?) la percezione del valore aggiunto, di percorsi a carattere mediativo/riparativo e di cura delle relazioni - come la mediazione familiare – rispetto alla tenuta comunitaria e all’emancipazione di fasce sociali, tradizionalmente considerate marginali.


Che danno potrebbe avere una donna, che, grazie all’accompagnamento di un mediatore familiare, qualificato si riappropria del contatto con le proprie emozioni e i propri bisogni in situazione, e del proprio potere decisionale?


È proprio questo, infatti, che accade nella stanza della mediazione dove, previo consenso libero e informato, i confliggenti, in posizione di simmetria, possono autodeterminarsi consapevolmente, in vista della definizione di un piano genitoriale condiviso, per il benessere dei figli.

Quanto alla preoccupazione che la mediazione familiare sia una sorta di sanatoria della violenza di genere, non v’è dubbio che un mediatore familiare qualificato sarà in grado di escludere la mediabilità o sospendere il percorso, per poter attivare tutti quei presidi di tutela istituzionali e che la rete dei servizi mette a disposizione.


Infine, forse, l’una e l’altra fazione cercano proprio lo scontro e si arroccano su approcci identitari e ideologici, per timore di perdere potere e consenso politico? O il sistema è talmente collassato, da non poter sostenere tutte le implicazioni, soprattutto socio-economiche e gestionali, che una vera riforma comporterebbe, tanto da preferire depotenziarne gli effetti, annacquando le novità?

Proprio come i papà e le mamme che litigano e pur di non darla vinta all’altra/o brandiscono l’arma impropria dei diritti dei bambini o ne fanno altrettanto inopportunamente un pegno d’amore? Per paura di perdere il controllo, per paura del nuovo…?!


Domande, in effetti, da far accapponare la pelle.

Non sarà il caso, di valorizzare, finalmente, le potenzialità di trasformazione, che possono svilupparsi in spazi dedicati all’ascolto e al riconoscimento reciproco, quali quelli della stanza della mediazione, per scoprirsi tutti più umani? O no?!

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