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Immagine del redattoreFrancesca Panarello

L’UMANITÀ OLTRE LA COLPA *

Non c’è felicità senza pace, non c’è pace senza giustizia.

Con questa frase Jacqueline Morineau, la madre della mediazione umanistica, in occasione di una intervista che mi rilasciava poco meno di 10 anni fa, parafrasava Aristotele, secondo il quale il fine supremo delle buone azioni, che ogni essere umano può compiere nella sua vita e, quindi anche l’obiettivo primario della giustizia, è la felicità.

Volendo interrogare le parole: il termine felice trova la sua radice in quella della parola fecundus, - con ciò indicando la capacità di generare - e in fela, la mammella, evocando creazione, generatività, nutrimento; il sostantivo giustizia, da ius, ciò che è giusto, che è di ragione: si riferisce a quella virtù che consiste nel riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, che gli è proprio; infine, secondo una lettura etimologica, il termina uomo deriverebbe dalla radice sanscrita bhu, che successivamente sarebbe diventata hu (da cui anche humus = terra), così che uomo significa "creatura generata dalla terra", e come tale “creatura coltivabile”.


Non può esservi, dunque, giustizia che non renda l’uomo felice, non possono, cioè, darsi atti di giustizia lì dove non sia consentito all’essere umano di generare, creare, nutrirsi, in una parola coltivarsi, essere in pace con se stesso, realizzare ciò per cui è venuto sulla terra: una creatura coltivabile.


Nel suo viaggio di scoperta e di cura di sé, l’essere umano fa esperienza della colpa, della rottura, di una spinta alla divisione, di un destino di perdita. Questo è tanto più evidente, non solo a livello individuale, ma anche nell’ambito delle relazioni: in particolare di quelle altamente conflittuali, quando non addirittura ferite dal vulnus della violenza.

La crescita esponenziale della rissosità interpersonale ai più vari livelli della società, dai rapporti di vicinato alla litigiosità della strada, nella scuola, in famiglia, sui social; la polarizzazione del confronto politico e delle opinioni, e, in ultimo, non per importanza, la diffusività degli abusi e dei fatti di violenza fisica e verbale, inducono, sempre più, a rintracciare un nemico da combattere, abbattere ed eventualmente eliminare o restringere dentro le mura di un carcere; ma, al tempo stesso, mettono in crisi l’efficacia delle soluzioni eteronome ed eteroimposte.

Quanto è soddisfacente e pacificante alimentare l’animosità verbale o l’agito violento, etichettare l’altro della colpa per il proprio punto di vista, per il proprio sentire, per la propria storia, provenienza sociale o culturale, per il proprio comportamento, fosse anche sanzionato da un’autorità giudiziaria?

Soprattutto quando è maggiore il caos e più alto il conflitto, le soluzioni tranchant e, persino, quelle giuridiche possono risultare insufficienti e non soddisfare in maniera adeguata le attese di felicità, pace e giustizia delle persone.


Posto che l’essere umano non può evitare l’esperienza della separazione e, quindi intesa in questo significato, neanche quella della colpa, come può darsi un senso, sentimento di umanità, che tenga conto di quel comune destino di essere coltivabile? Come dargli riconoscimento e rendergli giustizia, oltre la colpa?


Non è un caso, che una società abituata a vocabolari avversariali, distruttivi e scurrili, una società in preda alla paura e affamata di certezze totalizzanti, una società che adora la spettacolarizzazione del macabro e preferisce espungere e, al limite, recludere l’onta dell’ “ingiusto”, faccia fatica a sposare appieno un’idea di giustizia che fa della finitezza umana, delle sue contraddizioni, delle sue cadute, dei suoi errori – che sono in ciascuno - la chiave per una ri-costruzione identitaria fondata sui legami sociali, a partire dalla riabilitazione e dalla riparazione delle ferite, inferte nel corso di una vita di litigi, in occasione della rottura di un legame professionale, amicale o di coppia; e, perché no, delle ferite inferte dal reato.

È evidente che certi atti “non possono essere giustificati, ma il fatto che nella nostra società manchino luoghi concreti capaci di rispondere alla sofferenza degli uomini, deve farci comprendere quali possono essere le conseguenze di tale carenza”[Jacqueline Morineau, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli, 2011 (rist.), 32 ss.], e le carenze si registrano in termini di incomunicabilità, di sfiducia nelle relazioni, di manipolazione affettiva, di sfruttamento delle creature e del creato, di allontanamento progressivo degli esseri umani gli uni dagli altri e da se stessi; le carenze si registrano in termini di infelicità, di mancanza di pace con se stessi e con gli altri.

Nelle società arcaiche e, ancora oggi in quelle c.d. primitive, il disordine o la violenza vengono prese in carico dall’organizzazione dei legami sociali e condivisi dal gruppo sociale di riferimento, dalla tribù, in forme per lo più rituali, cerchi, consessi comunitari, in cui i protagonisti di quei gesti possono esprimersi ed, eventualmente, liberarsi dell’onta, del maleficio dell’energia distruttiva, anche attraverso il ricorso alla simbologia del sacrificio rituale fondato sul capro espiatorio.

Nelle società moderne, una volta spariti i riti, il ruolo catartico del capro espiatorio viene ricoperto da chi, tra quelli che ci circondano, sono individuati come causa delle nostre sofferenze: ciò in quanto, si ha, comunque, bisogno di un colpevole o, quantomeno, della rappresentazione di un colpevole, per sopportare il nostro lato oscuro e violento, per sentirci più puri, per soddisfare una fame ancestrale di giustizia.


La vendetta della società attraverso soluzioni soltanto sanzionatorie/retributive imposta dal sistema legale “circoscrive il disordine senza riuscire a eliminarlo” (J.M.ibidem), e, inoltre, in molti casi, senza nemmeno permettere l’espiazione della colpa: quel processo per cui si passa attraverso un’esperienza alta, per ricongiungersi con se stessi, che è forse la tensione più intima di ogni essere umano.


Un approccio del dolore e della sofferenza condotto solo dal punto di vista di chi si sente colpito, senza tenere conto, anzi rimuovendo, il punto di vista di quello che si considera (fosse anche sulla base della legge e/o di un atto giudiziario), offensore, è un approccio limitato e limitante, in una prospettiva di emancipazione dell’umanità.

Scriveva Goliarda Sapienza, nel suo libro autobiografico “l’Università di Rebibbia”, a proposito della sua esperienza da ristretta, di essere approdata, proprio grazie a quella “grande università cosmopolita” ad apprendere “il linguaggio primo”, ossia “il linguaggio profondo e semplice delle emozioni, così che lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri moventi (ed esigenze) del profondo”.

È questo linguaggio primo, che può restituirci al senso di essere umano, alla sua vulnerabilità di creatura della terra, in una “modalità agonistica” come scrive Adolfo Ceretti (cit. in Il diavolo mi accarezza i capelli, Il Saggiatore 2020]: una modalità basata sul dialogo aperto alle emozioni, alle esperienze personali e interpersonali, alle istanze affettive e ai differenti punti di vista.

Troppo spesso e a torto, questo linguaggio è ritenuto fatto di scorie inutili, che, invece, rappresentano un humus imprescindibile, un fertilizzante con una potente valenza generativa. Un humus da porre alla base di un sistema giuridico, che ambisca a soddisfare le istanze di felicità di ogni essere umano, e, in grado, al tempo stesso, di rendere le persone consapevoli del proprio posto nel mondo e di coesistere con gli altri.

C’è bisogno, dunque, di una umanità empatica e ingentilita, capace di utilizzare quel “linguaggio primo”, di ascoltare, comprendere e rispettare l’altro di sé e da sé; c’ è bisogno di una giustizia di prossimità, che non giudica; di percorsi di conoscenza e di pratiche appannaggio di chi è disposto a concepire la società senza l’ossessione della competitività e dello scontro, di chi, al di là della logica win – lose, del vincitore e del colpevole, considera possibile optare per la prospettiva cooperativa win – win, in cui tutti siamo responsabili di tutti.


C’è bisogno di una via della mediazione, intesa non soltanto come setting specifico di gestione dei conflitti, ma prima ancora come metodo diffuso, a cui educare ed educarsi, come postura interiore, per trattarsi, occuparsi di se stessi, al proprio cospetto e nelle relazioni, e, dunque, per coltivare umanità.


C’è bisogno di un rito dell’incontro propiziato da un terzo equivicino alle sofferenze di tutti e di ciascuno dei protagonisti di una relazione ferita dalla colpa: equivicino alla vittima e al carnefice, al tradito e al traditore, a chi sente di avere subito un’offesa e a chi è accusato di averla provocata, all’uomo e alla donna, ai figli e ai genitori, al medico e al paziente, all’insegnante e agli studenti, all’uno e all’altro; un terzo che non giudica, che conosce e pratica la raffinata arte dello sguardo, dell’ascolto e della parola, capace di mettere in relazione sentimenti, bisogni emotivi e valori di tutti gli attori coinvolti, in qualsiasi ambito sociale, anche nelle aree relazionali e sociali in cui il conflitto è più complesso e traumatico.

C’è bisogno di luoghi ed esperienze concrete attraverso cui favorire il rito dell’incontro, per trovare punti di intesa, ma anche solo per “essere d’accordo sul fatto di essere in disaccordo” (A.C. ibidem), per decidere di non vedersi più: può essere un modo per ri-conoscersi comunemente umani, per dirsi, raccontare ognuno la propria verità, per ri-stabilire un nuovo patto, per consegnarsi reciprocamente alla propria umanità oltre la colpa.

Francesca Panarello

Mediatrice familiare e dei conflitti a orientamento umanistico e transpersonale



*Intervento tenuto il 10 dicembre 2022, in occasione del seminario sulla Giornata Internazionale dei Diritti Umani, promosso da Anymore Onlus presso il Centro Polisportivo Giovanni XXIII di Ritiro, Messina, nell’ambito di CONTAMINAZIONI FEST 2022 - MAI PIÙ. È IL TEMPO DELLA PACE E DEI DIRITTI UMANI

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